MOBBING AL LAVORO: INQUADRAMENTO PSICOLOGICO DEL FENOMENO
Per la sintesi di questo articolo ringraziamo la D.ssa Monica Lanteri, entrata recentemente e far parte della nostra redazione
Fonte: Piesse – http://rivistapiesse.altervista.org
Articolo di Elena Fiabane, Martina Pigionatti, Gloria Tosi, Elisa Zugno- 2016
Mobbing e disturbi mentali
Negli ultimi decenni si è osservata una crescente attenzione verso il ruolo che gli eventi stressanti possono acquisire nella patogenesi dei disturbi psichiatrici. Numerosi studi hanno più recentemente evidenziato come le condizioni lavorative possano essere considerate tra le principali variabili connesse alla salute mentale (Wall T.D. et al. 1997; Stansfeld et al. 1999; Paternitti et al., 2002; Stansfeld e Candy, 2006; Sanderson e Andrews, 2006; Sun et al., 2011 ), confermando l’importanza del rapporto tra lavoro e disagio psichico. In un recente studio longitudinale condotto da Nielsen et al. (2012) per valutare le correlazioni fra mobbing e alterazioni psicologiche delle vittime, è emerso che vi è una mutua relazione tra mobbing e disturbi mentali, un circolo vizioso in cui ciascuno rinforza gli effetti negativi dell’altro. Le condizioni di stress lavorativo, il demansionamento, gli squilibri e l’ingiustizia organizzativa sono state descritte da diversi autori come rilevanti fattori di rischio per lo sviluppo di patologie psichiatriche, sia di tipo depressivo che di tipo ansioso (Sanderson K. et al. 2006, Virtanen M. et al. 2007). In assenza di categorie diagnostiche specifiche mobbing-correlate nelle classificazioni ufficiali internazionali e sulla base di una vasta analisi dei sintomi riportati dai soggetti osservati, si è arrivati a stabilire che i disturbi di cui generalmente soffrono i lavoratori vittime possono rientrare nella categoria dei disturbi post-traumatici da stress (PTSD). Non mancano, però, pareri discordanti: alcuni inquadrano il mobbing come disturbo dell’adattamento, e altri ancora ritengono che una delle sindromi che più colpisce i lavoratori a seguito di mobbing sia il disturbo di attacchi di panico (Timpa et al., 2005). Le prime ricadute delle situazioni di mobbing interessano la sfera neuropsichica i cui segnali precoci sono di natura psicosomatica (cefalea, disturbi gastrointestinali, dolori osteoarticolari, mialgie), del sottosoglia ansioso-depressivo (ansia, tensione, disturbi del sonno), comportamentale (ipofagia, iperfagia, potus, abuso di farmaci). Tuttavia se lo stimolo avverso è duraturo si possono configurare i due quadri psichiatrici sopra menzionati ad espressività piena, correlati a situazioni esogene: il Disturbo dell’Adattamento (DA) e il Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS). Tra le sindromi che colpisce la vittima di mobbing vi è anche la sindrome di ‘attacco di panico’: essa determina improvvise paure immotivate, con attacchi di panico violentissimi, con sensazione di morte imminente e contemporanea perdita del controllo di se stessi. La conseguenza disastrosa di tale sindrome è che il lavoratore perde totalmente la sua autonomia cosicché la sindrome risulta fortemente invalidante. Il motivo per cui il soggetto mobbizzato viene colpito dalle crisi di panico si spiega con il fatto che, per effetto delle iniziative persecutorie ed emarginanti poste in atto nella sede di lavoro, il mobbizzato inizia a macerarsi, pensa a cosa può aver fatto di male per meritarsi l’emarginazione e pertanto perde il senso dell’autostima e diventa vulnerabile, incapace di sostenere il confronto o addirittura il colloquio con un proprio simile.
Dagli studi presenti in Letteratura, emerge che i disturbi maggiormente diagnosticati nei casi di mobbing sono il DA che è diagnosticato con percentuali che oscillano dal 51,5% all’88,1% dei casi, e i Disturbi dell’Umore variano dal 5,3% al 25,7% mentre il DPTS è un evento meno frequente (Tonini et al., 2011; Balducci et al., 2009; Nolfe et al., 2007; Punzi et al., 2007; Girardi et al., 2007; Buselli et al., 2006; Hansen AM. et al., 2006; Monaco et al., 2004; Mausner-Dorsch H et al., 2000).
L’impatto individuale, sociale ed organizzativo del mobbing
La reiterazione ed il protrarsi nel tempo della molestia morale e psicologica comportano, nella maggioranza dei casi, la riduzione dello stato di salute e del benessere complessivo della persona vessata. Concentrandosi sulle conseguenze che il mobbing ha a livello individuale, emerge che fattori come la sicurezza dei lavoratori, la soddisfazione sul lavoro, sentimenti di umiliazione e paura contribuiscono a diminuire la coesione di gruppo e ad aumentare la perdita di posti di lavoro e una riduzione della produttività e delle prestazioni (Ayoko et al, 2003; Craig e Chong 2004; Parkins, Fishbein e Ritchey, 2006; Thompson, 2003). Precedenti studi hanno inoltre suggerito che il mobbing rappresenta una grave fonte di stress psicosociale in ambito lavorativo (Einarsen, 1996; Hoel et al., 1999) e proprio come fattore di stress psicosociale può essere potenzialmente dannoso per la salute e il benessere del singolo. Gli impatti del mobbing sui risultati lavorativi del singolo sono ampiamente descritti in letteratura e includono: un aumento dell’assenteismo, il burnout e il licenziamento (Gardner e Johnson, 2001; Kivimaki et al, 2000; Maclntosh, 2005; Namie, 2003,2007; Yildiz, 2007). Esempi di prestazioni peggiori includono un aumento degli errori di lavoro, una diminuzione della concentrazione e una perdita eccessiva di tempo a causa di preoccupazioni legate alla situazione di Mobbing (Gardner e Johnson, 2001; Paice e Smith, 2009; Namie, 2003; Yildirim, 2009; Yildiz, 2007). Da un punto di vista gestionale, la gestione e la valutazione di un dipendente che è stato vittima di mobbing può risultare difficile a causa della sua diminuita soddisfazione sul lavoro e della sua sviluppata intolleranza alle critiche (Quine, 1999, 2001; Yildirim, 2009; Yildiz, 2007) portando cosi a valutazioni scorrette che potrebbero avere poi ripercussioni anche a livello legale. Impatti individuali all’interno del dominio affettivo includono sentimenti, atteggiamenti ed emozioni. Esperienze di mobbing portano generalmente ad ansia, paura, tristezza e rabbia (Ayoko et al., 2003; Namie, 2003; Quine, 1999, 2001; Simpson e Cohen, 2004; Yildiz, 2007), perdita di concentrazione, diminuzione della motivazione, abbassamento dell’autostima e senso di impotenza (Baillien et al., 2009; Gardner & Johnson, 2001; MacIntosh, 2005; Moayed et al., 2006; Simpson e Cohen, 2004; Vartia, 2001; Yildirim, 2009; Yildiz, 2007). Yildirim (2009) inoltre sostiene che gli individui vittime di Mobbing riportano un impatto negativo anche sulle interazioni sociali al di fuori del contesto lavorativo. Altra grave conseguenza del mobbing è l’aggravarsi della situazione familiare e delle relazioni personali con amici e parenti (separazioni, divorzi, allontanamento degli amici). Alcune ricerche hanno ipotizzato che i figli dei mobbizzati possano avere dei comportamenti di imitazione del genitore e di conseguenza accusare problemi di somatizzazione (neurodermiti, ecc.). Nei casi più gravi la vittima, non trovando altra via d’uscita ai suoi problemi, medita il suicidio o, all’opposto, l’omicidio. La sovraesposizione di una persona al mobbing può portare la vittima a commettere reati per collera, per infrazioni, per reazioni violente o per aggressività o eccessi di difesa. Negli Stati Uniti circa 1.000 omicidi ogni anno avvengono nel posto di lavoro (Ascenzi e Bergagio, 2000). In riferimento alla sfera organizzativa, invece, il mobbing può comportare il peggioramento del clima organizzativo, l’aumento degli errori e degli incidenti sul lavoro, la diminuzione degli standard di efficacia-efficienza, e un consistente calo della produttività dovuto all’aumentare dell’assenteismo e del turnover. Gli effetti del mobbing non producono danni solo ai lavoratori che le subiscono, ma hanno ricadute in termini di costi anche per le aziende. Il mobbing provoca una inutile dispersione di risorse (tempo, intelligenza, informazione). I danni creati dal mobbing sono concreti e oggettivi, e più i metodi utilizzati sono subdoli, più aumentano i danni, poiché richiedono dispendio di tempo e risorse (Monateri et al., 2000). In una situazione di mobbing, il gruppo di lavoro accusa una riduzione della capacità produttiva e dell’efficienza, le critiche verso il datore di lavoro si fanno più marcate, e il tasso di assenteismo per malattia cresce. Il gruppo va alla continua ricerca di capri espiatori e aumenta la tendenza ad ingigantire i piccoli problemi. Le spese per l’azienda aumentano a causa dei sabotaggi messi in atto dal/dalla mobber, i quali provocano la perdita di grandi investimenti e di anni di ricerca. Un ulteriore aumento dei costi deriva dalla necessità di sostituire il lavoratore mobbizzato durante la sua assenza per malattia o incaricare qualcuno di portare a termine il lavoro incompiuto o errato della vittima. Se il mobbing è lasciato agire indisturbato, esso può giungere alla sua ultima fase, che vede la vittima costretta ad uscire dal mondo del lavoro, causando ancora gravi costi alla ditta, che deve trovare nuovo personale e predisporre nuova formazione. Quindi la sostituzione del lavoratore licenziato ha un costo per l’azienda in termini di know-how, per non parlare del prepensionamento forzoso e dei risarcimenti per cause civili dovuti ai lavoratori mobbizzati. Per quanto riguarda i costi umani si verifica un netto calo del rendimento e di impegno sia del mobbizzato che del/della mobber, una perdita di personale specialistico, il crollo del clima sociale dell’organizzazione e una limitazione della fiducia e della collaborazione tra i dipendenti. Dovrebbero essere considerati anche quei costi non quantificabili, come la delusione dei clienti e l’influenza che essi possono avere su molte altre persone in riferimento ad un calo dell’immagine aziendale. Un lavoratore sottoposto a violenze psicologiche sul posto di lavoro ha un tasso di produttività ed efficienza inferiore del 60%. Egli, in oltre, graverà sul datore di lavoro del 180% in più (Ascenzi e Bergagio, 2000). È evidente che le aziende dovrebbero prestare più attenzione alla gestione delle risorse umane e delle relazioni all’interno dei luoghi di lavoro.
Il ritorno al lavoro
Assenze prolungate per malattia costituiscono un notevole problema che ha ripercussioni sia a livello individuale che aziendale, coprendo più di un terzo del totale dei giorni persi e fino al 75% dei costi aziendali. Da un punto di vista individuale i problemi più evidenti riguardano aspetti sociali e psicologici quali l’insorgenza di disturbi mentali come la depressione, disturbi somatoformi, disturbi d’ansia e crisi di panico, con un incremento del contributo dei disturbi psichiatrici sulle assenze per malattia soprattutto negli ultimi anni (FeltzCornelis et al, 2010).
E’emerso inoltre che, se da una parte le assenze per malattia possono costituire un’opportunità per il lavoratore di impegnarsi in attività che potrebbero contribuire al recupero (es. psicoterapia), dall’altra assenze prolungate possono aumentare il rischio di isolamento, di sviluppare sintomi ansiosi correlati al ritorno al lavoro legati a preoccupazioni eccessive riguardanti le proprie competenze e le potenziali reazioni dei colleghi, aumentando di conseguenza anche il rischio di prolungare il periodo di assenza dal posto di lavoro. Valutando invece le conseguenze legate all’azienda i problemi principali sono relativi ai risarcimenti destinati ai lavoratori, alle spese mediche e alla perdita di produttività. Gli studiosi concordano sul fatto che l’assenza prolungata dal posto di lavoro per malattia deve essere interpretata come un fenomeno multifattoriale, influenzato da fattori personali, psicosociali, economici e medici. È fondamentale quindi, al fine di evitare che il congedo prolungato dal lavoro per malattia arrivi a delinearsi come una condizione di disabilità permanente, che gli operatori sanitari riescano a riconoscere i fattori che possono favorire o
sostenere questo processo. L’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) descrive domini correlati alla salute che possono essere influenzati da fattori legati al lavoro e da fattori personali quali atteggiamenti, credenze, stile di vita e comportamento, che possono svolgere un ruolo importante nel mantenimento della disabilità lavorativa. Emerge quindi che variabili personali e variabili ambientali sono fattori fondamentali altamente correlati al prolungamento delle assenze lavorative per malattia.
Dekkers-Sanchez et al. (2007) hanno individuato 16 fattori significativi legati al prolungamento delle assenze per malattia che possono essere divisi in due grandi gruppi:
– fattori individuali. I più significativi risultano essere: il sesso (correlazione positiva per il sesso femminile), l’ età avanzata, un reddito basso, la presenza di disturbi mentali;
– fattori lavoro-correlati. I più significativi risultano essere: la presenza di uno stato di disoccupazione nell’anno precedente (maggiore per le donne rispetto agli uomini), l’impiego in società no-profit, un basso livello di soddisfazione lavorativa.
Pertanto, partendo dall’idea che lunghe assenze dal posto di lavoro non sono determinate unicamente da uno stato di cattiva salute ma dipendono, come detto, anche da fattori individuali e lavoro-correlati, un miglioramento dei sintomi e dello stato generale di salute non è necessariamente correlato con il ritorno al lavoro. Tuttavia poco si sa del ruolo di determinanti non medici come fattori d’influenza del ritorno al lavoro. Certo è che le assenze dal lavoro dovute a disturbi mentali, in media, hanno una durata più lunga delle assenze causate da malattia fisica (FeltzCornelis et al, 2010)
Uno studio condotto da Verbeek et al (2004) ha cercato di valutare l’importanza e l’influenza del supporto sociale da parte del Medico del Lavoro nel determinare un precoce ritorno al lavoro. In particolare gli autori hanno evidenziato, per quanto riguarda il ruolo del Medico del Lavoro nel ridurre le assenze per malattia, che l’intervento può dimostrarsi più efficace se somministrato da una figura vicina al posto di lavoro; tuttavia, spesso i Medici del Lavoro non hanno una conoscenza approfondita delle diagnosi e dei trattamenti dei disturbi mentali, mentre i professionisti della salute mentale non sono istruiti per accogliere i lavoratori che hanno bisogno di un intervento finalizzato ad un ottimale ritorno al lavoro. Pertanto per il miglioramento della riabilitazione professionale dei dipendenti in congedo per malattia mentale può rivelarsi necessario un approccio multidisciplinare, in cui i domini e le competenze del Medico del Lavoro e degli esperti della salute mentale sono combinati (FeltzCornelis et al, 2010).
Studi precedenti avevano dimostrato che un supporto sociale positivo era associato con un minor numero di giorni lavorativi persi e un positivo rientro al lavoro, soprattutto nel caso di assenteismo legato a malattia fisica. Tuttavia, l’effetto di tale supporto sociale e delle sue componenti sul ritorno al lavoro di dipendenti con problemi di salute mentale non è ancora stata approfondito ma è stato indicato come potenziale fattore predittivo. Verbeek et al (2004) hanno osservato che tale supporto sociale può essere fortemente influenzato da aspetti quali la politica e l’organizzazione aziendale, la qualità del lavoro e dei rapporti sociali all’interno dell’azienda.
In particolare gli autori dello studio hanno osservato che un migliore supporto sociale è favorevole per un completo ritorno al lavoro in dipendenti non depressi, con disturbi dell’adattamento o sopravvissuti al cancro, mentre per dipendenti con un alto livello di sintomi depressivi questa associazione non poteva essere stabilita.