SUMMER SCHOOL LAVORO&WELFARE 22-24/9/17
Le varie “scuole di politica” cui partecipano da anni i volontari Risorsa hanno lo scopo di inquadrare l’attività concreta di prevenzione del mobbing nel contesto più ampio del mondo del lavoro. Siamo infatti convinti che è dalla conoscenza dei fenomeni che nascono orientamenti puntuali per i nostri assistiti. Coerenti con la nostra linea editoriale, anche questa volta, per ragioni di privacy, non diamo i nomi dei relatori, anche se importanti personaggi pubblici, ma solo il contenuto delle loro relazioni nella 3 giorni della Summer School (e)labora) di Cesenatico, organizzata dall’Associazione Lavoro&Welfare e dedicati ai temi del: Lavoro, Innovazione ed Equità, riassunti nel titolo: “L’umanesimo del lavoro”.
Per la verità, l’inizio non è molto incoraggiante, in quanto in una regione come l’Emilia Romagna, meno di altre toccata dalla crisi, ci si chiede come la difficoltà di reperimento di manodopera giovanile italiana, nell’estate 2017, sia forse ascrivibile non tanto alla mancanza di voglia di lavorare dei nostri giovani, quanto a sistemi, come, ad esempio, quello dei voucher, evidentemente molto lontani da un concetto di etica del lavoro, né di tipo “rinascimentale” né più moderno, poiché toglie dignità ai lavoratori con stipendi a livelli quanto meno “scandalosi”. Ecco, in estrema sintesi, alcuni dei temi trattati:
Pensioni: anche sul tema delle pensioni vengono illustrati dai relatori i limiti dell’attuale metodo di calcolo, attraverso una ricostruzione storica di quello che è stato (e non è più) il Welfare State. Vengono citati l’accordo interconfederale del 1934 sulla Cassa Unica Assegni Familiari (CUAF), la conquista sindacale del calcolo retributivo del 1968, lo Statuto dei lavoratori del 1970, le misure per la tutela della maternità per finire con la riforma sanitaria del 1978 estesa a tutti i cittadini e non solo ai lavoratori; negli anni ’90 poi nasce la legge sulla mobilità, più lunga al Sud e meno al Nord, per permettere le ristrutturazioni aziendali. Nel ’91, la conquista più importante per i lavoratori: la separazione della previdenza dall’assistenza, caricata sulla fiscalità generale. Ma con l’avvento della destra neo-liberista e della crisi economica, l’età pensionabile viene allungata, non come si vuol far credere, per l’aumentata aspettativa di vita, ma per la copertura del debito pubblico. Per ripianare i danni subiti sia dai lavoratori anziani che dai giovani, che vedono sempre più allontanarsi la prospettiva della pensione, occorre un quadro di riferimento e non interventi spot. Con il sistema contributivo, il tasso di sostituzione tra reddito lavorativo e pensione rimane tra i più alti in Europa, ma si applica a salari netti più bassi e a un mercato del lavoro che alimenta precarietà e discontinuità, non permettendo neanche di investire in pensioni complementari. Solo una nuova riclassificazione delle pensioni che escluda la spesa assistenziale e sia più mirata ai diversi tipi di lavori, potrà risollevare le sorti delle pensioni in Italia. A questo proposito si richiama l’impiego di giovani specializzati in agricoltura, oggi frenato dall’alto costo dei terreni e dai ricarichi del sistema distributivo. La domanda è: diventeremo tutti più poveri, se il mercato del lavoro non offre una frequenza costante (anche grazie a part-time imposti e non scelti), se al suo costo vengono applicate alte aliquote fiscali, i salari rimangono bassi e la gestione separata penalizza gli autonomi meno istruiti?. La risposta non può che essere: avremo sicuramente pensioni più basse, se non si pensa ad una pensione di inclusione: altro che umanesimo del lavoro!
Futuro e globalizzazione
Occorre rispondere a 3 questioni: il sistema dell’istruzione che è troppo anziano e ostacola l’inserimento dei giovani; nella Pubblica amministrazione è necessario cambiare le metodologie di competenze, con il turn over di giovani da formare; la sfida digitale e l’innovazione si scontrano col sistema imprese che preferisce puntare sulla riduzione del costo del lavoro, assumendo giovani a 500€ al mese, il che è scandaloso. Si ripropone di rendere più costoso il lavoro precario rispetto a quello stabile. Il nuovo lavoro stabile è una continuità in lavori diversi, non il vecchio posto fisso. La mobilità non deve soltanto avere un reddito decente, ma permettere anche di cambiare lavoro, perché il lavoro dà dignità alla persona e alla democrazia stessa. Comunque è da considerare che la flessibilità non ha portato crescita, come è sbagliato pensare che la crescita riduca le diseguaglianze. Sono proprio le disuguaglianze che sono un freno alla crescita e tra queste bisogna ancora distinguere tra Nord e Sud, tra padri e figli. Se è vero che le aziende in sviluppo non hanno un coso del lavoro basso, è evidente che non devono avere penalizzazioni. Se misure come gli 80€ incidono sulla fiscalità generale, un aumento numerico dell’apprendistato verrebbe a costare meno della decontribuzione. Anche l’alternanza scuola/lavoro consente ai giovani di entrare subito nel mondo del lavoro come specializzati oppure di continuare a studiare. In ogni caso è il tasso di istruzione che incide sull’aspettativa di vita, in quanto i lavori poveri e pesanti la riducono. In sostanza c’è bisogno misure strutturali, rivolte anche agli over 40. Contro il capitalismo finanziario che ha imposto cure liberiste per smantellare lo Stato sociale,a favore della Sanità privata, bisogna aggirare l’ostacolo anche con piattaforme sindacali unitarie e con l’applicazione delle salvaguardie pensionistiche per esodati e donne. Ingiustizie nelle tasse di successione e mancanza di una patrimoniale (come in Francia e Germania) sono ulteriori problemi italiani. Passando al futuro digitale, è lecito pensare ad una tassa sui “robot” intendendo con questi anche le piattaforme dei giganti del web, che si affidano ad algoritmi anziché a persone: se è vero che l’automazione aiuta la produttività, è giusto che le tasse siano pagate anche dove non vi sono prodotti fisici di uno stabilimento e non in paradisi fiscali. Non è automatico poi che abbassare le tasse voglia dire equità, fino a che ci sarà l’evasione fiscale. Se poi le aziende hanno pochi occupati pagano meno tasse e anche questo giustifica la tassa sui robot. Da queste proposte – si spera – dovrebbe nascere la prospettiva di un futuro migliore. E’ un primo segnale di speranza!
Gig economy e industria 4.0
Con gig economy si definisce il lavoro “on demand” dove si è chiamato solo se e quando esistono bisogni da soddisfare o competenze da usare e quindi temporaneo. Ne sono esempi Uber, (taxi) Foodora Ristorazione) , Airbnb (case private per turismo). E’ chiamata anche “economia dei lavoretti”. La digitalizzazione e l’automazione, proprie dell’industria 4.0 sostituiscono, con le piattaforme, anche l’imprenditore come organizzatore. Vi è il passaggio dal lavoro dipendente ad autonomo, però entro schemi predefiniti, che tolgono autonomia. Sono opportunità le possibilità di accesso a outsider non nazionali e il controllo del tempo di lavoro da parte dei lavoratori, anche se ciò provoca una riduzione del tempo libero. Questi lavoratori istruiti intendono l’economia dei lavoretti come integrazione di altri redditi più tutelati, poiché qui manca ogni tutela o come possibilità di lavorare da casa, creando individualizzazione di lavoratori non organizzati e con rapporti personali. Sono minacce il calo di occupazione, controlli pervasivi, pressioni prestazionali, accettazione di offerte al massimo ribasso, rischi a carico del lavoratore e non del datore che non è nemmeno identificato, e quindi mancanza di rapporto personale con capi e colleghi, protezione sociale affidata ad assicurazioni private, facilità di licenziare anche con SMS. Quanta differenza – conclude il relatore – con la Germania guglielmina del 1883, in cui nacque lo Stato sociale, come forma per evitare gli scioperi dei lavoratori. Si passa poi ai 3 principi su cui si basa l’industria 4.0: produzione intelligente (smart production), servizi innovativi (smart services), energia sostenibile (smart energy). In tale tipo di economia le imprese chiedono capacità dei lavoratori ad operare in contesti innovativi diversi e con formazione permanente e queste caratteristiche tuteleranno dalla disoccupazione, mentre nei rapporti datori/lavoratori non si parlerà più di “relazioni industriali” ma semplicemente di “relazioni”, poiché, secondo una ricerca a cura dei direttori del personale, il 90% di buone relazioni sul lavoro dipende dalla “motivazione” che i capi danno ai dipendenti. Solo se i lavoratori stanno bene sul posto di lavoro possono fare innovazione e i datori di lavoro ottenere buoni risultati. Bisogna però tener conto che i giovani non sono più disposti a sacrificare tutto al lavoro, poiché ricercano una buona qualità della vita. Importante è anche il ruolo dei sindacati, che, insieme ai legislatori, devono dare rappresentanza alle nuove competenze richieste ai lavoratori e aiutarli a riqualificarsi e ricollocarsi, partendo dalle competenze trasversali che deve dare la scuola. Si potrà così superare la fragilità del lavoro con provvedimenti strutturali contro il lavoro temporaneo. Si pensi alla Pubblica Amministrazione, dove proprio al digitale è affidato l’enorme sforzo di unificazione dei diversi database in possesso degli organismi pubblici, fonte di nuovo lavoro per giovani competenti . Il passaggio dalla cultura del consumo a quella della sostenibilità ambientale è un’altra grande sfida, poiché induce nuovi mestieri e professionalità e coniuga l’industria con l’ambiente, in una economia circolare. Sono altri segnali di speranza !
Alternanza scuola lavoro e prospettive a breve per il lavoro e il welfare
Al termine della 3 giorni cesenate, finalmente le speranze possono concretizzarsi se si parte dalla scuola, con un salto paradigmatico. E’ quanto afferma una autorevolissima relatrice. Infatti l’alternanza, che esiste da 10 anni e da 5 è obbligatoria anche per i licei è stata normata dalla legge 107 del 2015. Dalle prime visite informative sul sistema tedesco si è passati ad un raccordo tra il Ministero dell’Istruzione e quello del Lavoro per motivare i ragazzi verso i “big five”, cioè i temi attorno a cui costruire una vita di lavoro più degna di essere vissuta. Essi sono: apertura, mentalità, intrapresa, stabilità mentale, senso di responsabilità, cioè aspetti “umani” che fanno la differenza e che aiutano a non fermarsi di fronte alle prime difficoltà, ma ad affacciarsi a nuovi mondi. Negli ultimi 3 anni (in Europa sono 4) degli Istituti Tecnici Superiori e dei Licei Scientifici gli studenti fanno, in gruppo, progetti concreti con professori e tutor aziendali, da presentare all’esame di maturità, secondo il detto che le mani sono la finestra della mente, mentre quelli dei Licei Classici hanno accesso alle attività di ufficio di studi professionali, poiché la formazione umanistica può essere utile, ad esempio nell’etica dell’intelligenza artificiale. Le ore (da 200 nei Licei a 400 negli ITA) sono previste non solo durante l’anno scolastico, ma anche nel periodo estivo, con tirocini. Infatti sono proprio italiano e matematica che sono più carenti nella preparazione degli studenti di oggi. Al Sud poi è l’occasione per avviare i giovani verso classi imprenditoriali di nuovi lavori. Contro un atteggiamento negativo dei media, delle poche aziende del privato coinvolte (che la usano come un apprendistato non retribuito) e del settore pubblico (ASL, Comuni ecc.), delle reticenze dei professori (specie durante le ferie), non informati sulle nuove tecnologie, occorrerebbe comunicare meglio le esperienze realizzate. In ogni caso i ragazzi possono segnalare al Ministero ciò che non funziona. Da ricordare in quest’ottica il video dell’Inail sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Un altro autorevolissimo relatore ripete che anche nel documento di economia e finanza, in elaborazione al momento, la priorità è data all’occupazione giovanile, favorita da conoscenza, competenze e formazione al lavoro e che richiede la stabilizzazione dell’apprendistato. Ma non si può dimenticare il recupero di fiducia nel consumo. La crisi del ’29 è stata superata quando ci si è accorti che il mercato non riequilibrava l’economia e ora lo studio del capitalismo, dove la lotta di classe è stata vinta dai ricchi, serve a non sentirsi succubi del liberismo e della finanza. Rilevante è il passaggio dai centri per l’impiego provinciali alle Regioni, che, anche se ancora pochi (10000 contro 130000 in Germania) hanno unito il collocamento a politiche attive, che sono in definizione nel DEF, in aggiunta ai sostegni al reddito e ammortizzatori. Infatti l’80% dei poveri lo è per mancanza di lavoro e se obiettivo del job acts era di cambiare la qualità del lavoro, l’operazione non è riuscita a causa della prevalenza del precariato, anche se il numero degli occupati è cresciuto. Si ricorda che oggi esistono 150 tavoli di crisi per aziende ancora in crisi in certi settori e il problema è come governare con gradualità la transizione verso la ripresa. La qualità sociale del DEF sta nell’aver dato stimoli alla crescita col superammortamento che si ribalteranno sul lavoro, permettendo di rivedere il sistema pensionistico, soprattutto per la flessibilità in uscita (es. lavori usuranti)