SE NON E’ MOBBING CHE COS’E’?
Iniquità, discriminazioni e vessazioni nellePP.AA.sanitarie. Responsabilità, perseguibilità,conseguenze. Sono purtroppo sempre più frequenti le richieste di consulenza e assistenza legale formulate da colleghe e colleghi veterinari (non rileva invero il genere), operanti nei servizi delle ASL e degli IZS, legate ad atteggiamenti “negativi” ovvero “ostili” assunti da parte datoriale, dovendosi ricomprendere in tale definizione non solo la direzione generale dei citati Enti (Direttori amministrativi, sanitari, del personale etc.), ma frequentemente pure i livelli di direzione dipartimentale se non perfino di struttura. Tali atteggiamenti sono perlopiù descritti e spesso documentati come caratterizzati da vessazioni, demansionamenti, applicazione distorta degli istituti contrattuali normo-economici, assegnazione di funzioni e/o obiettivi in modo non trasparente e non meritocratico. Molto spesso chi è vittima di tali situazioni chiede di agire per il riconoscimento del danno correlato a una situazione di mobbing. Altrettanto spesso, se da un lato è possibile avviare delle azioni a difesa dei diritti dei singoli, ovvero anche di gruppi di dipendenti, in riferimento a figure giuridiche specifiche, come sotto meglio si espone, dall’altro risulta improponibile avviare azioni finalizzate al risarcimento delle diverse tipologie di danno sottese al cosiddetto mobbing, trattandosi di un “illecito giurisprudenziale” assai complesso, non supportato da normativa appositamente volta a reprimere le condotte datoriali che possono – come si vedrà – soltanto nel loro insieme configurare una vera e propria situazione di mobbing. È parso perciò opportuno formulare alcune considerazioni che, per quanto sintetiche, possano agevolare ciascuno ad orientarsi su questa complessa materia, adottando gli opportuni accorgimenti, nel contesto lavorativo, affinché i comportamenti effettivamente inadeguati che, nelle suddette tipologie, dovessero risultare attuati, possano essere stigmatizzati e perseguiti senza inseguire ipotesi non confacenti, bensì in modo puntuale quando effettivamente possibile; anche perché, evitando generalizzazioni comprensibilmente legate a un sempre più diffuso malessere lavorativo, venga invece posto efficacemente un freno a una dilagante aggressione della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria, rispetto alla quale è altra faccia della stessa medaglia ogni atteggiamento “autoprotettivo” con la quale troppi “superiori” scaricano sui collaboratori responsabilità tanto vessatorie quanto ingiustificate e spesso illegittime. Circa trent’anni or sono lo psicologo svedese Heinz Leymann definiva il mobbing come «una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo, progressivamente spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e/o di difesa». È divenuta prassi distinguere una tipologia di mobbing “orizzontale” (situazione in cui colleghi isolano la vittima, privandola di collaborazione, dialogo, rispetto) dal cosiddetto “mobbing verticale” nel quale è un superiore gerarchico a perpetrare gli abusi (sicché in tal caso si parla di bossing). Quest’ultimo tipo di atteggiamento vessatorio è quello diffuso nella più parte dei casi nei summenzionati contesti lavorativi di nostro interesse. Molto spesso vengono lamentate ritorsioni del superiore a seguito di comportamenti legittimi, ma non condivisi (“scomodi”) o per il rifiuto di sottostare a proposte o richieste di comportamenti illegittimi. Il ruolo di rappresentante sindacale può in tali casi risultare anche più penalizzante; laddove – invece – si tratta di una posizione “di garanzia” dei lavoratori alla quale non possono essere negate le specifiche prerogative, in primis quella di “contestare” quando del caso, ed eventualmente denunciare, proprio i comportamenti datoriali scorretti. Orbene, se il bossing corrisponde comunque a un particolare aspetto del mobbing, affatto diverso e distinto è il cosiddetto straining. Nel primo caso occorre che sia dimostrabile la sistematicità, la ripetitività e la correlazione teleologica (Cass. 2/4/2013 n. 7985) degli atti vessatori, seppure di diversa tipologia, e soprattutto deve potersi ravvisare una premeditazione o almeno un chiaro intento persecutorio (la prova dell’intenzionalità è ciò che rende molte volte particolarmente difficile la contestazione del mobbing). Lo straining invece è ascrivibile anche a una sola azione ostile o discriminatoria compiuta da un superiore nei confronti di un subalterno, quale il demansionamento, l’isolamento o la sottrazione degli strumenti di lavoro, i cui effetti si prolunghino – comunque – nel tempo producendo stress e sofferenza psichica in chi la subisce. Il termine straining, dall’inglese to strain – forzare, mettere sotto pressione, logorare, deformare – indica una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, assai superiore rispetto a quello cui il lavoratore può risultare sottoposto nello svolgimento dei propri compiti, di cui il lavoratore è sempre vittima ad opera del cosiddetto strainer che, di norma, è un superiore che pratica almeno un’azione ostile e stressante, i cui effetti negativi sono tuttavia durevoli. Il termine venne “coniato” dal dott. H. Ege, psicologo specializzato in Psicologia del lavoro e delle Organizzazioni, tra i primi a studiare il fenomeno del mobbing in Italia, cui va ascritto il particolare merito di aver riconosciuto lo straining come fenomeno diverso e specifico rispetto sia al mobbing sia allo stress occupazionale. Ben considerando quanto sopra, deve essere perciò posta particolare attenzione circa la possibilità di dimostrare davanti a un giudice la sussistenza della situazione rispetto alla quale si chiede danno. Nel caso del mobbing, dunque anche del bossing, è spesso insufficiente quanto possa emergere dalla mera analisi documentale, per quanto possa essere copiosa e puntuale la documentazione a supporto, tenuto conto dei suesposti principali requisiti (invero, la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 10037 del 15/5/2015, ha confermato come ben sette elementi dovrebbero risultare contestualmente ravvisabili perché gli atti vessatori possano essere qualificati complessivamente come mobbing: comportamenti vessatori, congrua durata nel tempo, reiterazione degli atti, sistematicità degli attacchi, intenzionalità dei comportamenti, inferiorità manifesta del vessato, conseguenze sulla salute). Ma, come risulterà ben comprensibile, è proprio nei casi di mobbing che la prova regina, quella testimoniale, viene meno; per quanto disdicevole, specie nei frequenti casi di bossing, e soprattutto quando parte della vessazione si estrinseca verbalmente, si assiste alla diffusa presenza del cosiddetto side mobber, il collega che nella migliore delle ipotesi si defila per non esporsi o perfino asseconda il “boss” sperando di trarne vantaggio. Atteggiamento vile che, semmai divenisse provabile, allora meriterebbe un intervento esemplare. Data tuttavia la difficoltà – ben inteso non l’impossibilità! – di provare le condotte ascrivibili al mobbing, occorre allora valutare con maggiore attenzione la possibilità di aggredire chi dovesse attuare un sostanziale bossing, non facilmente provabile nel suo insieme, individuando le singole condotte illegittime, eventualmente anche meglio supportate da normativa specifica. Da un lato considerando pure lo straining ma, ancora meglio, contestando e denunciando nel merito i singoli e specifici fatti di illegittimo demansionamento, di violazione del contratto di lavoro, di richiesta di condotte pure illegittime perché non conformi alla legge o anche “solo” alla disciplina contrattuale (evenienza di non minore rilevanza rispetto alla violazione di legge). Cosa dice la Legge Illustriamo perciò quali possano essere i principali riferimenti normativi e giurisprudenziali nelle suesposte situazioni. L’art. 2043 C.C. prevede l’obbligo di risarcimento in capo a chiunque cagioni ad altri un danno ingiusto con qualunque comportamento doloso o colposo. L’art. 2087 C.C. impone alla parte datoriale l’obbligo contrattuale di tutelare la salute e la personalità morale del dipendente, quale specifica applicazione delle più ampie tutele della persona, da cittadino a lavoratore, sancite dalla Costituzione (artt. 2-3- 4-32-35-36-41-42). Quanto ai comportamenti vessatori ovvero ostili sul posto di lavoro, nella nostra Carta fondamentale rilevano in particolare l’art. 32 che riconosce e tutela la salute come un diritto fondamentale dell’uomo, l’art. 35 che tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e l’art. 41 che vieta lo svolgimento di attività economiche private che possano arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (si rammenti che oggi la parte datoriale nelle PP.AA., particolarmente in quelle del S.S.N., provvede alla gestione dei rapporti di lavoro “con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” – D.lgs. 165/2001 art. 5 comma 2 bis). La giurisprudenza di legittimità (Cass. sez. lav. 25/5/2006 n. 12445) ha altresì riconosciuto come la parte datoriale non soddisfi gli obblighi di cui al citato art. 2087 qualora si limiti a reprimere eventuali comportamenti vessatori, senza provvedere a mettere in atto chiari e adeguati strumenti preventivi. In tal senso assume rilevanza sia l’attività del CUG (Comitato Unico di Garanzia), le cui difficoltà operative sono state analizzate nel n. 2/2014 di questa rubrica, sia la normativa vigente in materia di sicurezza sul lavoro, laddove viene espressamente previsto che il datore di lavoro valuti adeguatamente ogni ipotesi di stress lavoro-correlato e intervenga concretamente in termini soprattutto preven- Numero 1/2017 38 tivi qualora si ravvisi la presenza del fenomeno. Sicché, se da un lato non esiste una legislazione specifica in materia di mobbing e quindi il fenomeno non è configurato come fattispecie tipica di reato a sé stante, il che rende assai difficile ottenerne il riconoscimento, date unitariamente le suesposte ragioni, i singoli ovvero plurimi atteggiamenti che appaiono come “mobbizzanti” possono invece rientrare in numerose altre fattispecie di illecito, assai meglio tipizzate dal codice o dalle leggi, ovvero ben contestabili quali violazioni e inadempimenti alle previsioni dei contratti collettivi. Il tuttora vigente Statuto dei Lavoratori, Legge 300/1978, valido anche per i lavoratori delle PP.AA. (D.lgs. 165/2001 art. 42), punisce i comportamenti discriminatori del datore di lavoro (artt. 15 e 16) in specie se perpetrati nei confronti dei rappresentanti sindacali, e comunque qualora abbiano matrice politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso. Ma sono indubbiamente discriminatori, perciò causa di danno ingiusto ex art. 2043 C.C. per violazione del bene tutelato ex art. 2087 C.C. (vd. sopra) gli atti datoriali che, in relazione a quanto “possibile” per altri lavoratori, si estrinsechino in provvedimenti ovvero nell’imposizione di condotte in violazione delle norme di legge o contrattuali – che regolano il rapporto di lavoro – ai danni di uno o più lavoratori; a mero titolo di esempio si possono citare l’affida- Numero 1/2017 39 mento di incarichi di maggior rilievo anche economico e/o di maggior prestigio o rilevanza professionale senza la necessaria trasparenza e motivazione ovvero l’attuazione di un iniquo sistema di valutazione, tra le fattispecie più ricorrenti, sebbene escluse dal novero delle vessazioni che possono caratterizzare il mobbing (Cass. 17/1/2014 n. 898). Il demansionamento, poi, secondo la Corte di Cassazione (Cass. sez. lav. 12/11/2002, n. 15868) è specificamente vietato perché costituisce sempre lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione, e pertanto il danno che ne deriva è suscettibile di per sé, di risarcimento. E pare qui opportuno sottolineare come, se da un lato lo “svuotamento delle mansioni” non possa configurarsi come mobbing ovvero bossing (Cass. 2/4/2013 n. 7985), il demansionamento possa invece configurarsi frequentemente e in modi assai diversificati; non soltanto laddove venga in rilievo un’ingiusta riduzione della retribuzione (cd. reformatio in peius), ma anche quando vengano assunti provvedimenti volti all’esclusione da incarichi lavorativi specifici con ridimensionamento di ruolo, specie quando in capo a soggetti palesemente brillanti e magari “scomodi”, ovvero non vengano riconosciute, anche economicamente, funzioni rilevanti, invece concretamente svolte; in entrambi i casi con demotivazione e sostanziale limitazione dell’espressione delle capacità professionali e delle conoscenze, ovvero anche con l’esclusione del lavoratore da informazioni usualmente diffuse a tutti o comunque a pari ruolo se non perfino dovute perché necessarie al corretto svolgimento delle funzioni invece assegnate. Qualora poi dovesse provarsi la presenza di danno alla salute, sotto forma di disturbi dell’umore se non anche a carattere psicotico, disturbi che in ambito lavorativo sono ormai ampiamente conosciuti e classificati e che vanno dalle più diffuse “reazioni ad eventi”, fino a veri e propri “disturbi dell’adattamento” (DA), o anche a “disturbi acuti da stress” (DAS) o perfino al “disturbo postraumatico da stress” (DPTS), allora potrebbero configurarsi a carico della parte datoriale responsabile, se non perfino l’illecito penale di lesione personale grave o gravissima, comunque la responsabilità per il danno biologico associabile e, seppure meno frequentemente riconosciuto dalla giurisprudenza, anche eventualmente per il danno morale e in specie per quello esistenziale, tenendo presente che per il riconoscimento di quest’ultimo deve essere provato il duraturo peggioramento di vita del lavoratore (Cass. sez. lav. 23/11/2015 n. 29837). Rileva altresì come, di tali responsabilità e danni, siano chiamati a rispondere in solido sia il datore di lavoro sia il superiore gerarchico (Cass. sez. lav. 15/5/2015 n. 10037); e ciò assume quindi preoccupanti contorni (proprio in tema di responsabilità) quando il livello dirigenziale cui corrisponde la direzione dipartimentale o di struttura riceva delega dal direttore generale, spesso senza porre troppa attenzione ai possibili risvolti, a rivestire la qualifica di datore di lavoro delegato (!). In definitiva, tutto quanto sopra considerato: in primo luogo si osservi quante situazioni possono, purtroppo sempre più diffusamente, essere stigmatizzate nel merito specifico, a partire da un misconosciuto – da parte datoriale – ma ben vigente art. 7 D.lgs. 165/2001. “Le pubbliche amministrazioni garantiscono parità e pari opportunità tra uomini e donne e l’assenza di ogni forma di discriminazione, diretta e indiretta, relativa al genere, all’età, all’orientamento sessuale, alla razza, all’origine etnica, alla disabilità, alla religione o alla lingua, nell’accesso al lavoro, nel trattamento e nelle condizioni di lavoro, nella formazione professionale, nelle promozioni e nella sicurezza sul lavoro. Le pubbliche amministrazioni garantiscono altresì un ambiente di lavoro improntato al benessere organizzativo e si impegnano a rilevare, contrastare ed eliminare ogni forma di violenza morale o psichica al proprio interno. Le amministrazioni pubbliche garantiscono la libertà di insegnamento e l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca. Le amministrazioni pubbliche individuano criteri certi di priorità nell’impiego flessibile del personale, purché compatibile con l’organizzazione degli uffici e del lavoro, a favore dei dipendenti in situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare e dei dipendenti impegnati in attività di volontariato ai sensi della legge 11 agosto 1991, n. 266. Le amministrazioni pubbliche curano la formazione e l’aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifiche dirigenziali, garantendo altresì l’adeguamento dei programmi formativi, al fine di contribuire allo sviluppo della cultura di genere della pubblica amministrazione. Le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”. In secondo luogo si ponga perciò l’attenzione sulla necessità di valutare tempestivamente i comportamenti datoriali che appaiano inadeguati, ostili, vessatori o “semplicemente” illegittimi, potendo così raccogliere tutti gli elementi, in specie documentali, utili affinché eventuali richieste di danni possano risultare adeguatamente supportate e soprattutto correttamente inquadrabili, non già in fattispecie di complicata prova come il mobbing (ivi e in particolare compreso quello verticale, detto anche bossing), bensì – e meglio – in più specifiche condotte che, a partire dallo straining, quando effettivamente ravvisabile, possono più efficacemente essere perseguite nel merito in quanto meglio tipizzate, come nel caso delle violazioni di legge e del dettato della contrattazione collettiva, nondimeno quando in danno del rappresentante sindacale.
Fonte: Argomenti 1/2017 di Mauro Gnaccarini – Responsabile ufficio legale