DIFENDERE IL LAVORO PER DAVVERO
C’è una differenza tra la difesa di un princìpio e la sua esibizione. Difenderlo è compiere ogni atto concreto per affermarlo. Esibirlo significa ammantarsene e basta, senza curarsi dell’esito.
Sarebbe una narrazione assai lunga, a proposito dello svolgersi dell’iter della legge di Bilancio e del difficile confronto, a tratti aspro, che c’è stato alla Camera intorno agli emendamenti presentati dalla Commissione Lavoro. Ecco alcuni aspetti importanti. A cominciare dall’emendamento sull’aumento dell’indennità per i licenziamenti illegittimi. Su invito del Governo, è stato ritirato prima del voto in Commissione Bilancio, cosa che non è avvenuta alla Commissione Lavoro . Sarebbe cambiato qualcosa per i lavoratori? No.
Tuttavia rimangono le criticità del Jobs Act. Perché i diritti dei lavoratori non sono una bandiera.
Veniamo al dettaglio del punto. Nel Jobs Act ci sono dei difetti strutturali che ne compromettono l’efficacia. L’idea portante è stata quella di riavviare la macchina del mercato del lavoro, consumata dalla crisi economica del 2008 e da altri problemi più strutturali. Riavviarla in che modo? Come è noto, il goal dichiarato era quello di favorire la crescita delle assunzioni a tempo indeterminato con il cosiddetto contratto a tutele crescenti. Sgravi contributivi per le assunzioni e spostamento delle tutele dal posto di lavoro al mercato del lavoro. Accompagnando questa nuova modalità con altri elementi contenuti nei decreti attuativi della legge delega, nota come Jobs Act. Questo assunto teorico non è di per sé, in astratto, sbagliato o negativo. Molti di coloro che si sono schierati tra i contestatori del Jobs Act hanno assunto come bandiera l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori del 1970, il cui peso è stato ridimensionato nel Jobs Act. Ma un ridimensionamento ancor più consistente era avvenuto prima, nella legge Fornero, manon era quella la “bandiera”. Al momento in cui si discusse l’adozione del Jobs Act, l’articolo 18 tutelava solo il 15% dei posti di lavoro. Dal 1970 il mondo della produzione, delle imprese e del lavoro era assai cambiato. Non esisteva più la grande fabbrica fordista.
Ma c’è un punto su cui il Jobs Act ha mancato completamente l’obiettivo: perché, nella realtà, ha reso licenziare troppo facile e conveniente. Per le imprese, il licenziamento illegittimo è diventato, addirittura, più conveniente, dell’accesso agli ammortizzatori sociali. Anziché accedere a due anni di cassa integrazione, per le imprese è diventato più vantaggioso e, purtroppo, lecito licenziare anche se non si trovano in un’autentica situazione di necessità.
Questo per due ragioni: il licenziamento illegittimo non è più sanzionato con l’obbligo di reintegra ma solo con un indennizzo. Quell’indennizzo che è stato largamente ridotto a un minimo di 4 fino a un massimo di 24 mensilità determinate in modo crescente in relazione all’anzianità di servizio. L’obiettivo del mio emendamento era alzare il numero di quelle mensilità a un minimo di 8 e un massimo di 36. Rendendo il licenziamento illegittimo meno conveniente, come è giusto che sia.
C’è stato, da parte del Governo un atteggiamento ideologico nella difesa del Jobs act tout curt. Un rifiuto di vederne le criticità, i malfunzionamenti anche dove sono evidenti, come in questo caso. È un peccato. Un errore che si manifesta sotto gli occhi di tutti. E che resterà agli atti della chiusura di questa legislatura. Perché il compito della politica è quello di stare con la gente, di sostenere la giustizia sociale e misurarsi con la realtà. La quale è pronta a presentare il conto.
Fonte: da Lavoro&Welfare dicembre 2017