MACROECONOMIA, LAVORO E MOBBING AL TEMPO DEL CORONA VIRUS
A fianco le prime foto del corona virus isolato al microscopio
Riproduciamo questa intervista di un corrispondente del Corriere della Sera a Fareed Zakaria, esperto di geopolitica, segnalataci da un nostro volontario. Si fa un quadro sulle conseguenze macroeconomiche della pandemia di Covid19. Ma da queste dipendono anche le sorti del mondo del lavoro in Italia e, proprio in questi giorni, noi di Risorsa riceviamo alcuni appelli di persone che temono di perdere il lavoro: uno dei modi con cui gli imprenditori cercano di ridurre il personale è proprio il mobbing…
«Quella del coronavirus è la prima di una serie di crisi a cascata che si alimentano a vicenda e toccheranno tutti i quadranti del pianeta», dice al telefono da New York Fareed Zakaria, analista della Cnn e massimo esperto di geopolitica nell’età della globalizzazione.
Perché è così pessimista?
«Non ci rendiamo conto della magnitudine dei prezzi che il mondo intero rischia di pagare. Non torneremo neppure a una parvenza di vita normale, a meno che le grandi potenze non trovino un modo di cooperare e affrontarle insieme».
La prima crisi è quella sanitaria, che ha già innescato quella economica.
«Gli Stati Uniti nei due anni della recessione 2008-2010 persero 8,8 milioni di posti di lavoro. Solo nelle scorse due settimane, ne hanno persi già 10 milioni. Quella economica porta a sua volta una crisi politica e avvicina il pericolo del default di molti Paesi. Lo vediamo in modo drammatico nell’unione europea, che affronta la più grave sfida della sua storia. L’italia entra nella crisi già con un altissimo livello di debito pubblico, che aumenterà ancora di molto per contrastare le conseguenze economiche della pandemia. Ma non è solo l’Italia: la prospettiva di un collasso fiscale è reale per numerosi Paesi dell’UE. Perfino la Germania, che non ha una vera recessione da 10 anni, prevede una contrazione del Pil di oltre il 5%. Eppure, non vedo ancora una risposta comune adeguata, la sola cosa che salta agli occhi è il ripristino delle frontiere interne. Non c’è la percezione di una minaccia esistenziale: se l’Europa non ne prende coscienza agendo insieme su vasta scala e con strumenti nuovi, rischia di avvitarsi in una spirale da cui non sarà possibile uscire».
L’altro allarme che lei lancia è l’esplosione delle economie emergenti.
«Non sappiamo molto di quanto succeda veramente in India, Brasile, Nigeria, Indonesia, dove i numeri della pandemia appaiono ancora modesti. Credo che facciano pochi test e perciò sono artificialmente bassi. Ma stanno crescendo: in Brasile i contagi sono triplicati in sei giorni. Ora, a meno di essere molto fortunati, il virus colpirà anche lì e potremmo arrivare a centinaia di migliaia, milioni di casi, in presenza di strutture sanitarie che non possono neppure da lontano essere paragonate a quelle europee: i tassi di mortalità sarebbero inauditi. E anche lì lo scenario economico è l’equivalente di una Grande Depressione, con la differenza che questi Paesi non possono stampare moneta: possono farlo gli Usa, Cina, l’europa se sceglie l’unità, ma l’india o il Brasile non hanno questa opzione. Dovrebbero indebitarsi sui mercati internazionali. Il Fondo Monetario dice che le economie emergenti avrebbero bisogno di 2.500 miliardi di dollari di aiuti. In questo clima, chi può mobilitarli? È una bomba a orologeria».
Perché la quarta crisi che lei evoca, quella degli Stati petroliferi, la preoccupa tanto? Il prezzo del petrolio non rimarrà a lungo così basso: è bastato un cenno d’intesa tra Russia e Arabia Saudita per riportarlo sopra 30 dollari al barile in 24 ore.
«Quello che mi dicono in privato i manager dell’industria è che le loro previsioni si basano su un prezzo non di 30 ma di 10 dollari al barile. Non hanno mai visto nulla di simile. La domanda di petrolio per il trasporto non è calata, è scomparsa o quasi: gli aerei non volano, le auto non vengono consegnate. Sa cosa vuol dire per Paesi come Libia, Nigeria, Iran, Iraq o Venezuela, dove il 90% degli introiti pubblici viene dal petrolio? Quei governi fanno un profitto solo a partire da 60 dollari al barile, si troveranno di fronte al dilemma se continuare a produrre in passivo per non perdere quote di mercato o chiudere tutto. Parliamo di Paesi ad alta instabilità: guerra civile, violenza, carestia, crisi sociale, terrorismo. A cui si aggiunge la pandemia. Senza assistenza e sforzi coordinati esploderanno producendo ondate di rifugiati, diffusione del virus, terroristi ben oltre i loro confini».
Lei indica però una strada, quella della cooperazione in primo luogo tra Stati Uniti e Cina, che al momento non sembra praticabile.
«È vero, la cooperazione globale è al collasso e gli Usa, tradizionali leader e organizzatori di questi sforzi, hanno abdicato al loro ruolo. Ma una strategia contro le crisi della pandemia potrebbe funzionare solo se America, Cina e nella combinazione ideale l’unione europea, cominciassero a coordinarsi. Per esempio, il divieto di viaggiare.
La quarta crisi riguarda gli Stati petroliferi: la domanda di greggio è quasi scomparsa. Paesi instabili come la Libia e l’iraq, senza assistenza e sforzi coordinati, rischiano di esplodere
E il nazionalismo ?
«La pandemia produce forti istinti protezionisti, comprensibili ma insensati »
Le misure di contenimento avrebbero dovuto essere prese insieme, per evitare gli intasamenti agli aeroporti che hanno contribuito alla diffusione del Covid-19. L’amministrazione Trump lo ha annunciato invece senza dirlo agli europei. Ancora, se vogliamo rimettere la gente al lavoro per far ripartire l’economia globale, va fatto insieme: conosco imprenditori di New York che non riassumono perché la loro domanda è in Europa. Poi bisogna creare consorzi internazionali mettendo insieme risorse per la ricerca sul vaccino anti Covid-19, seguendo il modello vincente della lotta all’aids. Il problema è che la pandemia produce forti istinti protezionisti, comprensibili ma insensati: siamo tutti sulla stessa barca».
L’amministrazione Usa lo capirà o dovremo attendere il prossimo presidente?
«Il vantaggio con Trump è che non crede in nulla e da opportunista se vede un beneficio può cambiare. Ma ho qualche dubbio, perché ha istinti nazionalisti e tende sempre a scaricare la colpa su qualcun altro: in questa crisi sono i cinesi, che pure meritano molti rimproveri per essere all’origine dell’epidemia. Ma anche lui ha sottovalutato il problema. Accusarci a vicenda non serve a molto. La sfortuna è che affrontiamo la prima vera crisi globale in un momento in cui molti grandi Paesi sono governati da nazionalisti: gli Usa, la Cina, l’India, la Russia, il Brasile».
Fonte: Corriere della Sera, Paolo Valentino – 5 aprile 2020