POSITIVITÀ, SALUTE MENTALE E MOBBING
Il ragionamento – che un nostro volontario ha voluto trasmetterci – parte da lontano, dalla 2° guerra mondiale per giungere fino ai nostri giorni e vuole dimostrare che la positività a tutti i costi può essere dannosa per la nostra salute mentale e non serve, tra l’altro, a contrastare il mobbing. Fa pertanto una sintesi di un articolo riportato come fonte, aggiungendo anche qualche commento. Eccola:
Tra le tante cose che hanno caratterizzato la prima era di Internet e di Facebook, prevalentemente informativa, c’è in archivio un poster di propaganda britannico realizzato nel 1939 con l’intento di distribuirlo in caso di catastrofe, poiché aveva un messaggio positivo: si chiamava infatti “Keep calm and carry on”. Ne fu fatto un libro con lo stesso titolo, diventato poi un best seller. Tralasciando l’incredibile attualità per superare lo “stato di guerra” di oggi, vogliamo concentrarci sulle nevrosi personali, che nascono proprio quando ci vogliono far credere, magari anche giustamente, di lottare per la libertà. In quella che potremmo definire come la seconda fase dei social, quella degli “influencer”, vi sono coaches, travel bloggers, guru del fitness fisico o spirituale che parlano di felicità raggiungibile attraverso il successo. Secondo loro, non è vero che stai male: in realtà stai benissimo, il mondo è bello, ma tu sei solo negativo. Ovviamente, non c’è niente di male nell’essere ottimisti e nel cercare di stare fisicamente e psicologicamente meglio e cambiare le proprie abitudini negative, però, secondo l’OMS più di 300 milioni di persone nel mondo soffrono di depressione e ansia e sono in aumento, tanto che vengono considerate disabilità. Secondo Assosalute, in Italia, l’85% delle persone soffre di disturbi legati allo stress, contrariamente a quanto appare, ad esempio, su Instagram dove sembra di vivere in pieno edonismo reganiano. Ecco che, dall’ottimismo sacrosanto per superare le guerre, siamo passati alle conseguenze di un sistema socio-economico sempre più esigente e soffocante con sindromi da mobbing e da burn out. Peccato che la falsa positività fa il gioco di chi, per meri interessi economici e con l’aiuto dei social, vuole far credere che comprare una app sia “pensare positivo”. Nascondere le emozioni negative e dire che si possono superare con la sola forza di volontà, fa anche pensare, ai più deboli, di essere loro i colpevoli delle proprie emozioni negative (come avviene nell’ultima fase del mobbing, con l’identificazione della vittima nel proprio carnefice). La cultura della positività imposta è opprimente sia per chi decide di abbracciarla (e che presto si accorgerà che non si può vivere la propria vita con un sorriso sempre stampato in faccia) sia per chi invece soffre di depressione o di altre malattie mentali, magari sottovalutate o non diagnosticate. L’idea che basti pensare positivo per far sì che le cose belle accadano, significa far ricadere la responsabilità delle esperienze e dei sentimenti negativi esclusivamente sulle scelte dell’individuo. Ma le persone non decidono di essere depresse, o anche semplicemente tristi: sono altri che, in nome del profitto (spesso il mobbing consente alle aziende di risparmiare sui costi del personale), ci inducono, con sottili arti psicologiche, a pensare che la colpa è nostra. Con la proposta di vite artificiosamente ed esteticamente perfette, i social rischiano di minare la nostra salute mentale. Ma il panorama sta cambiando e si sta innescando una terza fase di Internet, dove le persone usano i social come una “piattaforma di advocacy” per la salute mentale, raccontando le loro esperienze (proprio quelle che pubblichiamo su Facebook nella rubrica “Risorsa racconta”). Così questi nuovi “therapy influencer” insistono sull’inevitabilità e normalità delle emozioni negative, contro la cultura della positività. Dopotutto, anche quel “Keep calm and carry on” serviva a nascondere agli inglesi che dall’altra parte della Manica c’erano i nazisti…
Fonte: da un articolo di “Creatori di futuro” di Luca Poma – 8 febbraio 2020