NON E’ UN PAESE PER MAMME
Storia di una dipendente: diventa madre, l’azienda la trasferisce. Lei fa causa, e la vince. Ma l’azienda insiste: e si torna davanti al giudice.
La protagonista di questa testimonianza l’8 marzo festeggia il suo compleanno. Lo stesso giorno della festa della donna. Ma, per lei, la coincidenza sa un po’ di beffa: perché da qualche tempo è costretta a lottare per vedersi riconoscere il diritto di continuare a lavorare, senza rinunciare a quello di fare la mamma. D’altronde, in Italia la parità dei sessi è ancora un’utopia. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing, negli ultimi due anni sono state 350mila le donne discriminate per via della maternità o per aver avanzato la richiesta di conciliare lavoro e vita familiare. Mentre dal 2011 al 2016, sempre in Italia, i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30%. Lei, giovane segretaria di azienda, è rientrata dalla maternità quando il suo piccolo aveva 4 mesi. Otto mesi dopo, quando il bimbo ha compiuto un anno, è cominciata la sua odissea: trasferimento a più di 50 Km. da casa. Una coincidenza? No, da allora è cominciato un vero e proprio calvario. Nonostante il giudice abbia deciso che la giovane non dovesse essere trasferita perché non sussisteva la crisi che l’azienda asseriva, la stessa ditta, appena letta la sentenza, ha rimandato una seconda lettera che, come la prima, recitava di nuovo la parola ‘trasferimento’. «Come se nulla fosse successo. Una battaglia infinita, a colpi di cause, denunce, accorate richieste di mediazione: «Gli affari dell’azienda non vanno benissimo, non puoi lavorare più qui, ti mandiamo a 257 chilometri di distanza». Per ora l’avvocato difensore è convinto che la giovane è dalla parte della ragione , poiché ha individuato che «Il motivo sostanziale e reale che ha portato l’azienda ad eliminare la figura della dipendente dalla sede originaria è legato alla maternità e va inquadrato nell’ambito della politica aziendale volta ad eliminare, di fatto, le dipendenti non più giovani, sposate e, soprattutto, madri. Così il giudice del lavoro ha accolto il ricorso d’urgenza ritenendolo fondato e non accogliendo la tesi dell’azienda che imputava il trasferimento al solo fatto di essere in crisi, cosa che non emergeva dai bilanci degli ultimi anni
Poi però è arrivata una nuova lettera, che non rispetta la decisione del giudice ed allora è stata presentata una denuncia-querela alla Procura della Repubblica, accusando l’azienda di aver «palesemente eluso il provvedimento del giudice. Per ora la donna è in congedo parentale ed afferma di non aver mai pensato di poter essere trattata così solo per la scelta di diventare mamma. Il dono più bello che una donna possa avere dalla vita ti viene fatto pesare in maniera vergognosa. Adesso si è in attesa di una nuova sentenza, ma certo il senso di incredulità che la dipendente ha provato al ricevimento delle lettere di trasferimento rimarrà un indelebile ricordo negativo: come avrebbe fatto a trasferirsi e pagare un asilo nido con un misero stipendio part-time? Come è possibile che non sia cambiato niente, nemmeno dopo aver vinto una causa? E dove sono i controlli dello Stato?
Fonte: letteradonna.it – articolo di Floriana Rullo – 8/3/17