MOBBING: LA PROVA DELL’INTENTO PERSECUTORIO
L’elemento qualificante il mobbing in un contesto lavorativo, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti ma nell’intento persecutorio che li unifica.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione pronunciandosi sul caso di una lavoratrice che ricorreva in Cassazione per vedersi riconoscere l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimatole dal proprio datore di lavoro nonchè il risarcimento dei danni per mobbing.
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo – sostengono i giudici – l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti ma nell’intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata. La conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.
I giudici ritenevano che i comportamenti addebitati al datore di lavoro – quali, variazioni dell’orario di lavoro, e contestazioni ravvicinate – non avessero valenza offensiva tale da integrare una condotta vessatoria con le caratteristiche della persecuzione e discriminazione.
Quanto al licenziamento consideravano non fondata la tesi della lavoratrice secondo cui il recesso sarebbe stato meramente verbale, rilevando invece che a seguito della lettera di contestazione la società aveva disposto la sospensione cautelare per comunicare poi il licenziamento con successiva lettera.
Teleconsul Editore Spa 1 ottobre 2018