PSICANALISTA E PAZIENTE: COLLABORAZIONE E RAPPORTO COSTRUTTIVO
In Inglese la collaborazione e il rapporto costruttivo tra psicanalista fa parte del cosiddetto “ Patient engagement”. Per fare ordine bisogna prima fare disordine” cioè è necessario scompaginare e sconvolgere uno status quo per poterlo modificare, fare ordine e pulizia dopo aver tirato fuori tutto e visto cosa c’è da tenere o buttare. Ed è normale che la iniziale situazione di caos, spaesamento, scoraggiamento sarà ben ricompensata dalla sensazione di appagamento una volta che sarà tutto in ordine e sistemato. Questa può essere una similitudine che si avvicina a cosa può succedere a chi sceglie di intraprendere un percorso di terapia. Magari si parte ben motivati, decisi a continuare, a proseguire, ma poi è molto facile, mano a mano che la terapia avanza, rimanere spiazzati, quasi spaventati dal caos che sta emergendo. E, scoraggiati pensiamo “stavo meglio prima, da quando vengo i problemi sono aumentati”, ma questa è solo la sensazione conseguente allo smarrimento del trovarsi in una situazione nuova, priva di ancoraggi, di sicurezze, forniti invece dalle situazioni conosciute, le cosiddette ‘comfort zone’, ed è normale che tutto ciò spaventi. Ma non dobbiamo farci spaventare, bensì, procedere con fiducia sul quel cammino che eravamo intenzionati a percorrere spinti dal desiderio di stare meglio. Non è solo il desiderio di stare meglio a convincerci ad intraprendere un percorso di tipo terapeutico, ma la volontà di cambiare qualcosa, di chiarirsi le idee con qualcuno di altro, di estraneo, per poter prendere così decisioni a mente libera e sgombra da pensieri invadenti e fuorvianti, è il desiderio e la voglia di condividere, è la volontà di conoscersi meglio riuscendo magari a capire il perché di nostri determinati comportamenti o di nostre determinate azioni. Steve Jobs nel suo discorso ai neolaureati di Stanford ha detto che alla fine tutti i puntini si uniranno e riusciremmo a vedere il disegno che ne emergerà. E così possiamo immaginare il lavoro terapeutico nel vivo, quando comincia ad emergere del materiale nuovo: un ammasso di puntini a formare quello che può sembrare a prima vista un quadro astratto, senza senso, o meglio senza un significato preciso, il quale invece, con fiducia nel lavoro che stiamo facendo, con un po’ di tempo ed un po’ di pazienza, prenderà forma ed acquisterà un senso ed un significato preciso. Ecco perché è importante la fiducia nel rapporto paziente – terapeuta, per potersi affidare ad essa nel caos del mare in tempesta come alla luce di un faro che ci rassicura sull’esistenza di un’uscita di sicurezza da questo quadro burrascoso. Questo paziente non è inerme di fronte al terapeuta ad aspettare una magica soluzione che pioverà dall’alto, ma la fiducia in questo rapporto- appunto il “patient engagement” – aiuterà nella decisione di proseguire più tranquilli ed ottimisti. Anche perché il lavoro terapeutico si basa sul principio della cooperazione tra terapeuta e paziente, dove non vi è qualcuno che dall’alto del suo sapere fornisce indicazioni ad un altro affinché svolga una determinata azione o tenga un determinato comportamento, ma saranno decisioni maturate alla luce del materiale emerso e di cui si è discusso, senza nessuna prescrizione o ricetta miracolosa. Se dovessimo schematizzare quanto detto sinora in quello che potremmo definire e chiamare un diagramma di flusso, ne emergerebbe questo: • Decido di intraprendere un percorso di tipo psicologico perché sento che qualcosa mi infastidisce -> quindi decido di fare ordine -> quindi decido di lavorarci su e ne sono contento e soddisfatto -> il lavoro procede ed emerge del nuovo materiale – ma cosa succede? Mi spavento perché mi sembra di non migliorare, anzi ho la sensazione di stare peggio. • Ma non è che sto peggio: semplicemente prima mi ero abituato a vivere in un determinato modo, costruendomi una determinata corazza che ora vedo colpire, attaccare. E posso scegliere: • o mi spavento ed interrompo la terapia • o continuo, ho fiducia ed il disegno confuso può prendere forma. Ovviamente le resistenze mostrate dal paziente mano a mano che il lavoro terapeutico procede, sono frutto di una costruzione andata a formarsi negli anni per difendersi, resistere, proteggersi da ogni avversità, da eventuali attacchi, ed il terapeuta deve rispettare ed avere ogni riguardo possibile per questa fortezza, senza attaccarla né distruggerla. È un alleato il terapeuta non un nemico intento ad attaccare a colpi di cannone e con le catapulte, bombardando quel muro di cinta eretto a protezione del castello, dal quale dobbiamo difenderci con forza. A seconda poi del tipo di percorso che intendiamo intraprendere, scelto in base a cosa per noi può essere maggiormente d’aiuto, può variare il livello di quantità di materiale emerso, il focus della terapia, anche il tempo impiegato per raggiungere il risultato del trattamento, ma il rispetto per le difese innalzate e per le resistenze mostrate, rimane sempre, a prescindere dall’orientamento e dal tipo di percorso. Si sente talvolta paragonare il lavoro terapeutico a quello dell’archeologo: probabilmente l’attinenza deriva dalla tendenza dei due a scavare a fondo per recuperare tesori sommersi e sepolti che rischiano di andare perduti o di rimanere nascosti, tesori che una volta disseppelliti potranno rivelarci preziose informazioni. E nel presentare il suo libro “Dalla terra alla storia”, proprio un archeologo, Paolo Matthiae, ha rilasciato una curiosa dichiarazione che ben rappresenta questa similitudine: inevitabilmente quando un archeologo scava, distrugge (dal momento che deve intervenire su un qualche cosa di preesistente, andato a formarsi negli anni strato dopo strato sul sito, apportando per forza di cose un qualche tipo di cambiamento) – il che sembrerebbe esattamente il contrario di quanto noi pensiamo solitamente – afferma l’esperto archeologo. Ma quando devono togliere il deposito archeologico (così viene chiamato dagli esperti), ecco, questa è un’operazione eseguita con il massimo riguardo ed rispetto per i dati e le informazioni che questo deposito può contenere, e per questo bisogna essere molto attenti a decidere quando toglierlo, come toglierlo, e come preservare quanto in esso è contenuto. E l’archeologo deciderà quanto scavare in profondità e quando invece fermarsi. Le resistenze del paziente potrebbero essere paragonate al deposito archeologico innalzatosi nel corso degli anni a difesa del tesoro sommerso, verso cui ci si muove e verso cui si agisce con il massimo rispetto senza bruschi interventi. Ovviamente il terapeuta farà di tutto per non distruggere il preesistente, perciò non bisogna spaventarsi, qui la parola distruggere è da considerarsi quasi un sinonimo mi viene da dire della parola cambiare, in quanto si vuole apportare un cambiamento con la terapia. Le resistenze serviranno poi al professionista come una guida durante tutto l’arco del lavoro, indicando dove intervenire, dove insistere o dove invece lasciare andare, e soprattutto saranno un’utile indicazione per calibrare il grado del nostro intervento, per misurare quanto possiamo incidere, come se fossero loro la nostra bussola durante questo viaggio. Spesso capita che venga incolpato il professionista, il terapeuta, “è stato lui a metterti in testa queste cose? Sei tu a parlare o sono parole del tuo terapeuta?” e sono critiche portate dai dubbi dello stesso paziente, o possono provenire dai familiari, i quali vedono il paziente cambiato, diverso, ‘non sei più lo stesso’ oppure può capitare nella terapia di coppia di incolpare il professionista con frasi del tipo ‘ci siamo lasciati per colpa sua…’ Ma non è così, è solo può capitare di prendere coscienza, di trovare il coraggio, per mostrare un atteggiamento differente da prima, perché ora si è più consapevoli di sé e del risultato che si vuole raggiungere, senza più essere frenati da tabù, da divieti che prima ingessavano impedendo una libera espressione. Il terapeuta non spinge mai in una direzione o in un’altra anche perché sarebbe scorretto, ma può succedere che, grazie al lavoro terapeutico, ci si senta più sicuri, liberi, forti, spalleggiati, pronti per affrontare argomenti che prima magari non si aveva il coraggio di affrontare. Chi decide di andare da uno psicologo, di farsi seguire da un terapeuta è una persona che ha scelto e deciso di prendersi cura di sé, di essere felice, di stare bene, di stare meglio, è una persona che è riuscita a prendere consapevolezza di sé e decisa a tramutare una propria condizione di pesantezza in una condizione di leggerezza.
Fonte: Notiziario Cipes Promozione salute n. 3 7-9/19 da un articolo di Valentina Basiglio